Le pensioni oggi e il futuro dei giovani
La generazione di chi ha tra i 20 e i 30 anni ha molte difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e, anche quando ci riesce, spesso la retribuzione è molto inferiore alla media nazionale; uno dei fattori del problema è sicuramente il mondo delle pensioni e come esse influiscono sulle prospettive e sul futuro dei giovani.
La crisi del 2008 ha portato a tante rivoluzioni, sociali, economiche e politiche.
Il crollo del sistema finanziario e la crisi della banche prima negli Stati Uniti e poi in Europa hanno lasciato segni ancora ben visibili intorno a noi. Forse, uno dei solchi più profondi ad essere tracciato è quello che ha diviso ed esposto ad un ingiusto divario i giovani ed i pensionati.
Gli ultimi dati presentati dal LISD (Louxembourg Income Study Database) mostrano come, dal 2004 al 2015, in tutta Europa, il reddito dei giovani sia rimasto più o meno invariato, nel Regno Unito ad esempio si è passati da 31.900 £ a £31.000 (-3%), mentre quello dei pensionati sia andato salendo progressivamente, da 21.231£ fino a 26.700 £ (+26%).
In Italia la situazione non è migliore: se da una parte il dato positivo dei pensionati (+9%) è inferiore a quello inglese, dall'altra parte il peggioramento nei redditi di chi ha tra i 25 e i 29 anni è sceso in maniera ancora più preoccupante (-16,07%).
Questa rilevazione è sicuramente grav, e lo diventa ancora di più poiché profondamente connessa ad altri due grandi problemi che l'economia europea si trova ad affrontare: il mancato aumento dell'inflazione e la disoccupazione giovanile.
L'inflazione, spesso dipinta come un pericolo o dato a cui stare attenti, non è necessariamente un fattore negativo ed anzi un suo attestarsi su uno stabile tasso intorno al 2 o 3% permetterebbe ai lavoratori, più o meno giovani, di guadagnare di più.
Viceversa una sua assenza fa aumentare il valore dei capitali immobili, i risparmi, in larga parte posseduti da pensionati e persone con più di 50 anni.
Inoltre in alcuni paesi, come ad esempio il Regno Unito è stato varato un provvedimento, il cosiddetto “Triple Lock”, che assicura una crescita delle pensioni in accordo con il dato migliore tra la crescita dell'inflazione, della media dei salari o del 2,5%. Questa misura non è stata presa però per proteggere anche l'aumento degli stipendi e se a questo dato si unisce il costante aumento degli affitti, cui sono più soggetti i giovani che gli anziani, più propensi invece a possedere una casa di proprietà, il divario si fa ancora più imbarazzante.
I giovani stanno pagando il prezzo più alto per il disastro finanziario verificatosi otto anni fa, e molto di questo ha anche a che fare con il problema delle baby pensioni.
A partire dagli anni '70 un mix tra sottovalutazione dell'aumento dell'aspettativa di vita e un'idea di stato che dovesse farsi totalmente carico del welfare, ha portato a concedere condizioni pensionistiche che ai tempi sembravano ragionevoli, ma risultano ora inique e stanno danneggiando i giovani adulti di oggi.
Soprattutto se si pensa che in Italia il sistema retributivo, in vigore fino alla riforma Fornero, non creava una reale corrispondenza tra quanto versato prima da lavoratore e quanto poi incassato mensilmente una volta pensionato, poiché l'assegno pensionistico si andava a calcolare in maniera percentuale in rapporto alla media di retribuzione percepita durante gli ultimi anni di lavoro, andando a gravare significativamente di più sui costi dello stato rispetto all'attuale metodo contributivo, che si basa invece su una media che tiene presenti i contributi versati e la retribuzione annua.
In aggiunta molti paesi, tra cui l'Italia, per salvare i propri conti sono stati costretti a mettere in atto manovre volte ad alzare sensibilmente l'età pensionistica, con l'effetto di andare a creare un tappo che impedisce il ricambio generazionale e di far aumentare la disoccupazione giovanile (che nel dicembre 2015 era del 37,6 %), senza però pretendere un contributo da chi in pensione c'è già da tempo e, fra questi, chi da tempo gode di un'alta entrata sostenuta ormai interamente dallo stato.
Ovviamente non è solo il sistema pensionistico a rendere difficile l'accesso al mondo del lavoro per i giovani: la globalizzazione e le liberalizzazioni per esempio hanno permesso alle grandi società una sempre più aggressiva politica di esternalizzazione andando a dislocare in paesi dove il costo del lavoro è significativamente più basso non solo fabbriche, ma anche centri assistenza, assistenza legale programmazione hardware ecc. Non per questo qualcosa non deve essere fatto per ridurre il solco che si sta scavando sempre più profondo tra le generazioni.
L'attuale presidente dell'INPS Tito Boeri sembra avere ben presente la situazione e ha più volte provato a chiedere il supporto del mondo politico sia per andare a tagliare le pensioni più alte, sia per favorire l'uscita dal lavoro dei 60enni e permettere un maggiore ricambio all'interno delle aziende.
Se da una parte, soprattutto nella figura del ministro del lavoro Poletti, la politica si è dimostrata molto reticente all'idea di mettere mano alle pensioni d'oro, dall'altra sembra essersi aperto un piccolo spiraglio che potrebbe permettere a chi ha più di 63 anni e 7 mesi di richiedere un part time, andando a guadagnare il 65% dello stipendio attuale, ma mantenendo intatti i contributi (grazie ad un intervento dello stato che verserebbe la parte mancante). Ciò aprirebbe così la strada a nuovi posti di lavoro.
È un primo passo, ce ne sono ancora molti da fare, ma il futuro dell'Europa non può che passare da chi adesso è giovane e sta poggiando ora le basi del suo futuro economico.
Mercoledì, 18 Maggio 2016