Palestina, Israele e le donne che lottano per la pace
Federica è stata in Israele e Palestina con l'associazione "Pace Per Gerusalemme. Il Trentino e la Palestina" nel febbraio 2015.
In questo articolo ci racconta la sua esperienza con una particolare attenzione al ruolo delle donne nella risoluzione del conflitto.
Amo viaggiare. Amo l’idea di dover preparare la mia valigia, immaginare i luoghi che visiterò e le persone che avrò la fortuna di incontrare. È sempre stato così. Divisa tra due paesi, Italia e Francia, impacchettare le mie cose, prendere il treno o la macchina con la mia famiglia, e partire alla volta dei parenti prima di qua e poi di là sono state azioni sempre presenti nella mia vita.
Quando, però, qualche anno fa mia madre ha letto sul giornale locale che “l’Associazione Pace Per Gerusalemme. Il Trentino e la Palestina” di Rovereto (Tn), cercava giovani da formare per poi inviare in un viaggio d’istruzione di 10 giorni alla scoperta di Israele e Palestina, ho pensato che un piccolo sogno si stava realizzando. Mi sono candidata e ho fatto un colloquio giusto di conoscenza con l’emozione, però, con cui si affrontano quelli di lavoro, e quando ho avuto l’ok definitivo sono stata di una felicità indescrivibile. Per alcuni weekend di dicembre e gennaio assieme ad altri nove tra ragazze e ragazzi, ho partecipato ad incontri di formazione, aperti a tutti o solo a noi, su temi quali: cooperazione internazionale, elaborazione del conflitto, storia mediorientale, cultura e letteratura palestinese, conflitto Israele-palestinese nel contesto giuridico-storico e la resistenza non-violenta nel contesto della resistenza palestinese.
Come sempre succede quando ti affacci verso qualcosa di nuovo: mi si è aperto un mondo che conoscevo solo in piccolissima parte e che mi ha rapita subito.
Febbraio è stato il mese della partenza, dopo uno scalo a Roma, assieme agli altri ragazzi, siamo atterrati all’aeroporto “Ben-Gurion” di Tel Aviv e da subito ho percepito un po’ l’aria di allerta continua che avremo avuto modo di conoscere molto bene durante tutta la mia permanenza. Siamo arrivati che era già buio e mentre con il pulmino ci avviavamo verso Beit Jala (cittadina palestinese a pochi minuti da Betlemme), io guardavo fuori dai finestrini assaporando ogni km di quei luoghi, la prima grande differenza stava proprio nel paesaggio: Israele è molto occidentale mentre la Palestina ha l’anima araba. La vista della nostra camera dava sulla parte vecchia della cittadina e tra la notte, l’emozione, le casette dal tetto liscio con qualche lucetta qua e là...sembrava di essere in uno dei nostri presepi!
Il giorno dopo eravamo tutti pronti! Ed è iniziata così la nostra avventura che ci ha portato a conoscere associazioni quali Zochrot, Ichad (Israeli Committee Against House Demolitions),Ipcri (Israel Palestinese Center for Research and Information), Aic ( Alternative Information Centre), Women in Hebron, Youth against settlements e Other voice, che con diverse modalità mirano a trovare una soluzione affinché il rispetto per l’altro batta le ideologie fondamentaliste dell’una e dell’altra parte e si riesca a raggiungere una pace duratura in questa parte di mondo che da oltre 70 anni conosce solo conflitto.
Durante le nostre giornate abbiamo avuto modo di visitare le città di Gerusalemme Est e Ovest, Betlemme, Hebron, Sederot, Jaffa (parte araba di Tel Aviv), il villaggio At-Twani, il museo dell’Olocausto Yad Vashem e di parlare di storia passata e attuale con il professor Sami Adwan (dell’Universita di Betlemme) e Maurizio Molinari (allora corrispondente per “la Stampa” in Medioriente). Ma io sono appassionata di questioni di genere e forse un po' per questo gli incontri che mi hanno colpito di più sono stati quelli in cui abbiamo colto anche che cosa voglia dire essere donna li. Nel villaggio di At-Twani abbiamo incontrato donne, bambine e ragazze in prima fila nel movimento di resistenza non violenza, adottato da molti villaggi a sud di Hebron per far fronte alle violenze subite da parte dei coloni israeliani. Siccome un soldato maschio non può arrestare una donna, ci hanno spiegato per esempio, loro fanno da scudo ai loro uomini perché non vengano arrestati per i motivi più futili (dall’aver arato il loro campo, alla raccolta delle loro olive, all’aver pascolato le pecore nei loro prati ecc..), inoltre li aiutano nella ricostruzione di scuole e case e hanno fondato una cooperativa che crea e rivende artigianato locale per auto sostenersi. Oltre al ruolo di moglie e madre c'è la preoccupazione per il futuro e il loro ruolo diventa cosi attivo e fondamentale nella e per la loro comunità. Ad Hebron invece abbiamo incontrato donne simili ma diverse, anche perché diversa è la situazione da villaggio a città, soprattutto in questa, importante per la cultura ebraica e una delle più grandi città palestinesi. Qui le ragazze che abbiamo conosciuto ci hanno raccontato di come la nascita della cooperativa che gestiscono sia stata necessaria per crearsi prima di tutto un’indipendenza personale da uomini troppo spesso padroni all’interno delle loro famiglie; ma anche dalla situazione di occupazione che complica la vita dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Esse creano e rivendono artigianato “Made in Palestina” che viene venduto anche fuori da Hebron. Quindi si tratta di una sorta di salvaguardia di genere in primis, le donne hanno bisogno di trovare prima di tutto un loro ruolo e valore personale nella propria comunità e poi nella risoluzione del conflitto. Altro grande incontro con una donna incredibile che ci ha accolto come una nonna ma con una grinta e lucidità da invidia è stato a Sederot. Questa signora è membro di Other Voice un’associazione israeliana che mira ad allentare tensioni tra Israele e Gaza cercando dialogo con i suoi abitanti. Dopo averci offerto tè e biscotti ci ha illustrato cosa vuol dire essere al di là ma anche al di qua del muro, tra allarmi missili e corse nei bunker. Lo ha fatto con semplicità accogliendo le nostre domande curiose e aprendoci un cancello per mostrarci Gaza, o meglio mostrarci il muro e la Striscia che gli sbucava dietro. È stato con quest’emozione così forte che abbiamo concluso un viaggio emotivo e umano. Perché questo sono certa non dimenticherò mai, le persone con le loro storie di sofferenza ma non di resa, di voglia di trovare la parola fine ad un conflitto assurdo e una pace eguale per entrambi i paesi. I volti curiosi di bambini che ci vedevamo camminare per delle vie e luoghi non proprio turistici, il lavoro alla Hope Secondary School di Beit Jala con i suoi alunni che si cimentavano tra inglese e insegnamenti di arabo pur di giocare a calcio con noi, tutte le donne e gli uomini che ci hanno accompagnato in questo viaggio in maniera consapevole o per caso e che hanno deciso di donarci un po' di loro per capire davvero che cosa succede lì.
Per questo dico sempre che non c'è modo migliore di conoscere il mondo che girarlo e viverlo per le emozioni che trasmette e la ricchezza che dona. Viaggiare mi ha aiutato a capire la bellezza della diversità nella sua uguaglianza di fondo che porta a non rimanere immobile verso ciò che ci circonda ma ad agire. Come diceva la signora di Sederot “Ricordiamoci del passato e da dove siamo venuti, ma non fermiamoci lì, guardiamo avanti verso il futuro e le cose che possiamo fare.”
Martedì, 19 Gennaio 2016 - Ultima modifica: Mercoledì, 06 Dicembre 2023