Negli occhi di Michele

Michele D'Addetta di Arco, vive e lavora da sei mesi a Cuba dove si occupa di valorizzazione del patrimonio culturale per conto dell'UNESCO. Il suo sguardo sulla vita quotidiana di questa comunità ci restituisce una società in rapida evoluzione e fermento

Michele di Arco, da sei mesi è all’Avana, dove lavora nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale di Cuba per conto dell’UNESCO. La curiosità che suscita quest’isola dalle forti contraddizioni e l’interesse per la sua attività all’interno di un’organizzazione internazionale che si occupa di patrimonio culturale dell’umanità hanno anticipato il nostro contatto su skype, avvenuto pochi giorni dopo la segnalazione di un’amica.

Com’è vivere da europeo a Cuba?

Quando ho fatto domanda per il programma delle Nazioni Unite, nell’ambito dell’UNESCO, sapevo che, se mi avessero accettato, avrei potuto essere assegnato a qualsiasi luogo, anche in aree pericolose come il Medioriente o perciò quando hanno saputo che avrei lavorato all’Havana presso l’Ufficio Regionale per il Latino-americana ed i Caraibi alcuni amici hanno commentato che sarei stato come perennemente in vacanza. Ed è in un certo senso vero, qui si vive molto bene.

In realtà, dopo i primi momenti di euforia, mi sono accorto che anche nella vita quotidiana il regime e l’embargo statunitense hanno lasciato tracce nelle piccole cose, soprattutto quando si tratta di reperire beni di primissima necessità.

L’essere straniero mi pone inevitabilmente in una condizione di ‘yuma’, distante dalla realtà sociale locale, qualcuno a cui vendere qualsiasi cosa, pur con la cordialità e apertura dei cubani. La lingua, l’accento non cubano, l’aspetto fisico, tutto rivela chi sono.

Poi piano piano, chiarite le differenze e il disequilibrio di interessi, sono riuscito a creare legami di amicizia e mi si è aperto un mondo che è non sempre tangente con quello che avevo visto all’inizio. Ho iniziato a salire su mezzi di trasporto frequentati solo da cubani, a conoscere persone che mai erano entrate in contatto con europei; ad esempio ho parlato con un agricoltore che non aveva mai avuto contatti con uno straniero; con lui ho discusso di metodi di coltivazione e di prodotti che non conosceva e di cui ha chiesto di fornirgli i semi.

Mi piace comunque ogni tanto incontrare chi parla la mia lingua e perfino il dialetto.

Per la prima, mi ritrovo con alcuni amici italiani che vivono qui e per il secondo c’è skype, che mi permette di restare in contatto con la mia ragazza, con i miei genitori.

Come appare la vita a Cuba?

Qui l’economia informale è imperante.

Capita così, per esempio, che chi lavora in una fabbrica di sigari se ne porti a casa qualche cassa e cerchi di rivenderla ad ignari turisti per cento volte il loro valore. Chiunque – dopo l’apertura di Raul al settore privato -si sta ponendo sul mercato in settori economici inerenti al turismo internazionale, diventando taxista, gestore di case per turisti, etc.. Questo fa in modo che i giovani cubani non trovino piú gli stimoli per proseguire gli studi a livello universitario, dal momento che chi lavora per lo Stato non riceve un salario maggiore di 60 dollari al mese, mentre lavorando nei settori legati al turismo puó guadagnare molto di piú.

C’é chi poi cerca di sobrevivir, come si dice qui, cercando di eludere i vincoli del sistema come un’amica psicologa, che, per poter esercitare liberamente, si é vista costretta a registrarsi all’albo dei professionisti come chiromante. E chi non ce la fa é costretto ad emigrare, sposando uno straniero, cercando un visto di studio o lavoro per poi rimanere nel paese di destinazione, oppure di andarsene clandestinamente, attraversando con imbarcazioni di fortuna un centinaio di chilometri di acque infestate dagli squali per arrivare in Florida.

Per un europeo la società cubana aiuta anche a liberarsi del proprio animale consumista e delle sue necessità – cosa che, peró, non mi azzarderei mai a dire ai miei amici cubani. Ad esempio internet è stato installato da poco, non si riceve ovunque ed io so che, potendomi collegare dall’ufficio, sono fra i pochi privilegiati. In realtà i pochi luoghi con il cablaggio sono alcuni parchi pubblici che sono diventati luoghi di grande socialità, tutto l’opposto dell’alienazione e solitudine davanti al computer che conosciamo. Qui il collegamento in rete diventa un momento per scambiarsi informazioni con i vicini, i parenti che si trovano all’estero e chiunque si ritrovi lì socializza molto facilmente. Questa è una caratteristica della cultura cubana, ma è anche un modo per vedere concretamente come una difficoltà susciti strategie collettive per superarle.

Ho rinunciato a capire tutto di Cuba: ci sono situazioni paradossali che vanno accettate per quel che sono.

Qual è il tuo compito all’UNESCO?

Lavoro nell’ufficio che si occupa di realizzare progetti rivolti a promuovere il patrimonio culturale dell’isola; è mio compito scrivere progetti, implementarli, verificarne la fattibilità, monitorarne le fasi di attuazione.

Si tratta di un campo molto vasto, dato che riguarda non solo gli oggetti, che possono essere collocati in un museo, monumenti o beni che si trovano nel territorio, ma anche di espressioni della cultura quali la lingua, la ritualità, l’alimentazione, i cosiddetti beni immateriali, di cui l’UNESCO ha il compito di garantire la tutela e la valorizzazione.

In questo senso Cuba ha davvero bisogno di queste iniziative; soprattutto ora che si apre al turismo c’è un rischio concreto che logiche di uniformazione dell’offerta turistica facciano scomparire ciò che rende unica e particolare questa realtà culturale.

Devo dire che sono stato facilitato nel compito dai miei referenti locali dell’organizzazione, che mi hanno permesso di conoscere direttamente il territorio, lasciandomi libero di percorrerlo e di capirne le caratteristiche, anche se devo dire che ogni giorno viene fuori qualcosa di nuovo e Cuba è davvero un laboratorio in evoluzione continua.

Cosa vedi nel tuo futuro?

Quando ho deciso di occuparmi di queste problematiche sapevo che avrei dovuto scegliere un percorso all’estero. Devo dire che finora ho sempre avuto la possibilità di decidere di intraprendere il percorso migliore fra quelli che mi si offrivano. In ogni tappa, da Sydney a Parigi, a Venezia, a Bruxelles, ho sempre optato per ciò che mi faceva crescere come professionalità e formazione.

Una condizione di insicurezza comunque accompagna il mio lavoro, che è legato a progetti a durata annuale o su più anni; è qualcosa che conosco e che per il momento non mi pesa.

Nel futuro so che viaggerò ancora in diverse parti del mondo. Comunque mi piacerebbe anche poter tornare nel mio territorio e senza attendere molti anni. Credo che potrei mettere a disposizione le esperienze maturate per far crescere i luoghi in cui sono nato e con cui sento un legame particolare. Mi piace pensare di poter imprimere novità e cambiamento e so che per questo servono forze giovani che sappiano non delegare e abbiano l’entusiasmo e la voglia di fare per essere concreti ed efficaci.

Lunedì, 11 Luglio 2016 - Ultima modifica: Martedì, 12 Luglio 2016

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