Italia a confronto con l’Europa: qualche numero sul mondo universitario
Necessità? Trend? Il numero degli studenti italiani negli atenei stranieri sale in maniera esponenziale, drastico il calo di presenze nella aule italiane. Breve confronto tra tassazioni universitarie europee
Necessità? Trend? Il numero degli studenti italiani negli atenei stranieri sale in maniera esponenziale, drastico il calo di presenze nelle aule italiane. Breve confronto tra tassazioni universitarie europee
RIVA DEL GARDA - Il flusso dei giovani italiani nelle aule degli atenei stranieri è un fenomeno che, data la portata, ha sempre più bisogno di essere messo in luce e analizzato attentamente dal punto di vista sociale quanto politico.
I dati parlano chiaro: sembra proprio che le nostre, di aule, si stiano a poco a poco svuotando. Secondo l’analisi “Nuovi divari. Un’indagine sulle università del Nord e del Sud” condotta dalla Fondazione Res nel 2015, l’Italia ha registrato un calo del 20,4% nelle immatricolazioni all’università tra il 2003/04 e il 2014/15, riducendo i nuovi iscritti di oltre 60.000 unità. Fatalità, sono proprio 60.000 i ragazzi che studiano all’estero: 42.000 gli iscritti in atenei europei oltre confine, 18.000 quelli che partecipano a progetti Erasmus (dati Fondazione Migrantes 2011).
Sarà la crisi, ma da questi dati emerge la chiara incapacità di trattenere ciò che dovrebbe costituire una delle più grandi fonti di ricchezza e sviluppo di un Paese, il “popolo degli universitari”. Inettitudine di un Paese la cui quota di laureati sulla popolazione è già bassa rispetto all’Europa: in Italia la percentuale dei laureati tra i 25 e i 34 anni non arriva al 23%, mentre in Europa si registra una media del 36,1%, come sostenuto da uno studio pubblicato su lavoce.info che ha incrociato dati Eurostat e Istat.
Il Bel Paese si è inoltre guadagnato il triste primato di chi spende meno per l’istruzione tra gli stati membri europei (dato Istat 2014). La spesa pubblica per la scuola ammonta infatti al 4,6% del PIL; di ben tre punti percentuali ci supera invece l’irreprensibile Danimarca, posizionata in testa alla classifica.
Ma perché si è notato un così netto incremento di italiani nelle università europee?
Sicuramente a un cittadino italiano che si imbatte nella classifica stilata da “THE-Times Higher Education” sulle top 100 università europee (e a cui tocca scorrere fino alla cinquantesima posizione prima di trovare un’università italiana, la Scuola Normale di Pisa), quantomeno sorge il dubbio se valga la pena di trasferirsi in qualche altro paese per ottenere un titolo di studio che in Italia non sembra garantire sbocchi nel mondo del lavoro.
Tra i motivi vi sarebbero anche il deciso incremento delle tasse universitarie in Italia e le condizioni più vantaggiose offerte dalle altre università europee. E' questo il dato che emerge dal rapporto della Fondazione Res del 2015, secondo il quale tra il 2004/05 e il 2013/14, a parità di potere d’acquisto, le rette universitarie nostrane sono aumentate del 57,5%.
Vediamo allora un po’ di numeri offertici da un altro studio “National Student Fee and Support System” condotto dalla Commissione Europea in collaborazione con EACEA (Education and Youth Policy Analysis) e Eurydice.
Nel comparare l’ammontare delle tasse universitarie e delle borse di studio tra gli Stati membri dell’Unione europea, il rapporto rileva che tra i Paesi che guardano all’istruzione universitaria come ad un diritto innegabile e per questo gratuito a tutti i cittadini troviamo la Danimarca.
Niente tasse neanche per gli studenti della Germania, della Finlandia, della Svezia, della Norvegia e, a sorpresa, dell’isola di Malta. E sebbene la retta universitaria sia un ricordo ormai ingiallito per gli abitanti di questi paesi, molte di queste università offrono anche borse di studio in molti casi consistenti.
Quelle danesi, ad esempio, supportano con un minimo di 1486 euro ed un massimo di 9575 euro all’anno i prorpi studenti, l’85% dei quali usufruisce di questa possibilità; seguono a ruota quelle tedesche, poi ci sono le finlandesi, le maltesi, le svedesi e le norvegesi.
In tutti questi Stati, è più del 50% la fetta di studenti che si avvale dei (e che ha diritto ai) sussidi governativi.
Anche la Repubblica Ceca si guadagna un posto a fianco degli Stati sopraelencati, chiedendo una cifra simbolica come retta universitaria, che va da un minimo di 7 ad un massimo di 9 euro annuali e mette a disposizione la possibilità di ricevere borse di studio fino ai 916 euro; la Francia chiede invece in media 184 euro per le triennali e 256 per le magistrali, offrendo sussidi statali che in media raggiungono i 5551 euro annui: i giovani che ne godono sono circa il 36%.
É l’Inghilterra a guadagnarsi il primato come università più costosa d’Europa: le tariffe a carico degli studenti partono da un minimo di 10.218 euro ad un massimo di 10.567. Leggendo i dati esposti nel rapporto “National Student Fee and Support System” sembra che il sistema universitario inglese non preveda sussidi per alleggerire i costi, nemmeno per i meno abbienti, ma è necessaria una breve ricerca sul web per scoprire che esiste un ente, la SLC (Students Loans Company), che si occupa di elargire prestiti agli studenti universitari in maniera agevole e accessibile ai più.
Il Regno Unito rimane infatti una delle mete (sempre) più ambite dagli studenti europei: nel 2014 si è registrato un aumento del 20% di immatricolazioni di studenti italiani negli atenei inglesi rispetto all’anno precedente, come rileva Antonella de Gregorio sul Corriere della Sera.
L’Italia, in quanto a cifre, si colloca in una posizione più in linea con paesi come la Spagna e la Grecia: le tasse, secondo il Rapporto della Fondazione Res, ammontano in media a 1262 euro all’anno e al massimo 2086, i contributi statali, da un minimodi 1925 euro annui ad un massimo di 5108, sono però garantiti al solo 9,3% degli studenti.
Questi dati, già di per sè eloquenti, si inseriscono in un contesto tutt'altro che lusinghiero: secondo un'indagine Eurostat 2014 solo un ragazzo italiano su due trova lavoro entro tre anni dalla laurea, ovvero il 52,9% dei giovani italiani tra i 20 e i 34 anni, contro una media Ue dell’80,5%. In Germania la percentuale è del 93,1%.
Ricapitolando, il quadro che viene a galla è quantomeno scoraggiante: viviamo in un paese in cui la percentuale di laureati è tra le più basse d'Europa, la percentuale di spesa pubblica destinata all'istruzione è all'ultimo posto in Ue. Gli oneri economici a carico degli studenti universitari aumentano, le immatricolazioni calano, e i laureati faticano a trovare un impiego. Sorge allora spontanea la domanda dei giovani: perchè rimanere in un'Italia che non solo non tiene il passo dell'Unione europea, ma ne rappresenta anzi il fanalino di coda?
Da questa fotografia del mondo universitario europeo risulta infatti evidente che la formazione del capitale umano non è tra le prime priorità dell’Italia. I dati statistici sembrano dare ragione a chi sostiene che per ottenere un ruolo valido nel mondo del lavoro e della ricerca si debba scappare lontano da questo sistema istruttivo stagnante che, non valorizzandone il merito, fa cadere gli studenti in uno stato di frustrazione più che giustificato.
(Chiara Maistri)
(Chiara Maistri)
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Nonostante il Ministro del lavoro Giuliano Poletti tra i 100mila giovani che se ne sono andati dall'Italia dica di conoscere “gente che è bene non avere tra i piedi”, e che “ se è andata via è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”, noi di Altrove Reporter non ci faremo abbattere da una sì ammirevole riflessione sul tema e continueremo nella nostra missione di dare voce ad un sovrastante fenomeno che necessita a parer nostro di un approccio quantomeno più accorto e ponderato rispetto a quello del nostro Ministro.
- 26/12/2016
Lunedì, 28 Novembre 2016 - Ultima modifica: Lunedì, 10 Aprile 2017